Nei rapporti di vicinato, i toni si scaldano di frequente, soprattutto nel corso delle assemblee. Tuttavia il fatto di avere a che fare con vicini ostili non significa permettersi il lusso di insultare o, peggio, di minacciare.
L’art. 610 del Codice penale prevede che «chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare o omettere qualche cosa, è punito con la reclusione fino a quattro anni».
La pena è aumentata nel caso in cui la violenza o la minaccia siano commesse con armi, oppure da una persona travisata o da più persone riunite, o con uno scritto simbolico, oppure avvalendosi della forza intimidatrice derivante da associazioni segrete, esistenti o soltanto supposte.
Ma affinché si possa configurare il reato di «minaccia» è necessario che sussistano una serie di presupposti.
Innanzitutto, la minaccia deve essere seria e il fatto possibile. Un modo scherzoso o esagerato di esprimersi non rientra nel penale. Si pensi a chi dice «Con un calcio ti spedisco sulla luna». Ciò che conta dunque è il contesto.
La minaccia deve incutere timore in una persona media. Così, ben potrebbe essere che la parola di una persona con precedenti penali abbia maggior peso rispetto a quella di una persona anziana disabile.
La minaccia deve riguardare un fatto ingiusto. Dire «Ti trascino in tribunale» o «Ti denuncio» o «Ti faccio fallire» sono concetti che esprimono l’esercizio di un diritto costituzionale: quello cioè di ricorrere a un giudice. Sicché, per quanto infondata possa essere l’azione giudiziale (nel qual caso ci sarà al limite la condanna alle spese processuali), non ci può essere minaccia.
Il fatto minacciato deve dipendere dall’azione del reo. Dire «Ti faccio il malocchio» o «Mi auguro che tu muoia presto» non è minaccia, ma lo sarebbe «Non sai che ti faccio» oppure «Prima o poi ti ammazzo», ecc.
La minaccia può essere esplicita, ossia eseguita con parole specifiche, oppure implicita, quella cioè manifestata con gesti. Si pensi a chi finga di prendere una pistola nascosta nella giacca; chi passi il proprio dito sul collo in senso orizzontale, mimando lo sgozzamento; chi brandisce un bastone facendo intuire che potrebbe impiegarlo da un momento all’altro, ecc.
Il reato è integrato ogni qualvolta la condotta dell’agente, connotata da violenza o da minaccia, sia idonea a produrre una costrizione del soggetto passivo, che resta così privato della libertà di determinarsi in piena autonomia.
Quanto alla minaccia, ovvero alla prospettazione di un male ingiusto, la Suprema Corte ha recentemente chiarito che, ai fini dell’integrazione del reato, è sufficiente «un qualsiasi comportamento od atteggiamento idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, finalizzato a ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa».
Quindi, il fatto che il vicino si faccia trovare tutti i giorni sul portone o sul pianerottolo, in occasione del passaggio della vittima, può essere considerata come una tacita minaccia, che addirittura potrebbe sconfinare nello stalking condominiale (leggi le nostre due guide su questo argomento: Quando c’è stalking condominiale e Stalking condominiale: come provarlo).
La minaccia è anche quella proferita nel corso dell’assemblea condominiale. Ma non necessità per forza di testimoni per poter essere passibile di punizione. Basta infatti la semplice dichiarazione della vittima, se circostanziata e non contraddetta da elementi esterni, per fondare la condanna penale.
Non c’è solo il reato di minaccia o di stalking condominiale come occasione per denunciare il vicino di casa pericoloso o ossessivo. Ancor più frequente è quello di violenza privata.
Ad esempio, è stata giudicata illecita la condotta di un soggetto che aveva intenzionalmente parcheggiato la propria autovettura all’interno del cortile condominiale in modo tale da impedire l’uscita di quella della vittima, opponendo un netto rifiuto, nonostante le ripetute sollecitazioni, a rimuovere il proprio mezzo. Ed è sempre violenza privata occupare il parcheggio riservato ad una persona invalida, impedendo a quest’ultima di accedervi e, quindi, privandola della libertà di autodeterminazione e di azione.
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