Il ticket di licenziamento è il contributo che l'impresa versa quando viene meno il rapporto di lavoro. Quali sono i casi in cui è obbligatorio? Cosa succede in caso di dimissioni? Come si calcola il valore del ticket di licenziamento? Cosa succede in caso di risoluzione consensuale del rapporto?
Una recente circolare dell’Agenzia delle entrate (la numero 40 del 2020) ha riportato all’attenzione il tema del licenziamento e del relativo ticket che le aziende devono pagano in caso di interruzione del rapporto di lavoro.
Questo è il primo aspetto degno di considerazione, dal momento che il ticket è dovuto solo nei casi in cui sia stato sottoscritto un contratto a tempo indeterminato e che il licenziamento non sia imputabile a qualche negligenza del lavoratore, quindi deve trattarsi di un licenziamento involontario per il dipendente.
I casi sono essenzialmente 3:
Parzialmente vero. Nel caso delle dimissioni è importante considerare la tipologia che è stata utilizzata. Anche in questo caso sono 3 le tipologie che comportano l’obbligo del contributo:
Anche in questo caso è importante analizzare il caso specifico. In effetti vi sono casi in cui anche il lavoratore ha diritto al pagamento della NASPI. Qualora la situazione rientri in questo caso, allora anche l’imprenditore è obbligato al pagamento del ticket di licenziamento.
Si, queste tipologie di contratto danno diritto alla NASPI quindi obbligano il datore di lavoro al pagamento del ticket di licenziamento.
Nessuna differenza. La discriminante è la tipologia di contratto, se determinato o indeterminato.
Per il 2020 il ticket è pari a 503,30 euro per ogni anno di lavoro effettuato, fino a un massimo di 3 anni, ovvero 1.509,60 euro. Questa cifra viene corrisposta per rapporti di lavoro di durata pari o superiore a 36 mesi.
Sono molteplici le situazioni in cui non è dovuto il contributo del ticket di licenziamento. Nello specifico, ciò avviene nel caso di:
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